2005 Dozza, Bologna, Borgo medioevale e Rocca Sforzesca 

L'uomo e il suo cammino. 20a del Muro Dipinto

Marilena Pasquali

 

Credo che pochi artisti come Paola De Laurentiis abbiano nel tempo imparato a scandagliare il volto dell’uomo, specchio e riflesso del suo animo, con tanta capacità di interpretazione e di immedesimazione.

I suoi volti (Paola, con voluta, provocatoria, semplicità li chiama soltanto “facce”) gridano di solitudine e di disinganno, si mordono le labbra per non dir parola, fissano gli occhi diritti negli occhi dell’osservatore per stabilire un contatto, per raccontare tutto di sé in un silenzio che urla più di mille parole. Si usa dire, a proposito di pochi, grandi artisti (penso ad Antonello, a Rembrandt, a Vermeer…) che non siamo noi a guardare i loro ritratti, ma che piuttosto siano loro a guardarci. Non è mia intenzione fare paragoni spiazzanti, ma solo sottolineare un carattere essenziale delle Facce di Paola, quel loro prenderti alla gola e stringerti allo stomaco per arrivare al cuore, per non lasciare via di scampo all’emergere dell’emozione. E tutto avviene attraverso lo sguardo: lo scambio di consapevolezza, la confessione di un’impotenza che si trasforma in crudeltà, lo sprofondare nel vuoto, tutta l’esperienza e la meraviglia dell’esistere, la richiesta tacita di comprensione.

Ma questi volti non sono tutti uguali, perché esprimono una vastissima gamma di emozioni e sentimenti e caratteri, ognuno impersonato (ma “persona” non vuol forse dire, originariamente, “maschera”?) da un interlocutore-specchio di Paola: interlocutore perché sempre il primo, vero colloquio avviene tra il creatore e la sua creatura; specchio, perché in realtà ogni volto è il suo volto, anzi il riflesso tangibile di tutto ciò che essa, come una spugna assetata, assorbe dal mondo che le sta intorno.

A Dozza Paola ha portato soltanto tre opere, ma quanto intense e quanto diverse una dall’altra! La prima e certo la più inquietante è Ted Turner del 2000, ritratto senza veli di una delle personalità più crudeli di un secolo crudele. Tutto concorre a creare, in funzione catartica, malessere e repulsione: quelle labbra strette e contratte che hanno perso il sorriso nella tenebra che tutto circonda, generata dal pallore ghiacciato della pelle da cadavere: quel filo rosso di sangue che attraversa come una cicatrice la fronte e la tempia, coagulandosi come una lacrima non versata: e, soprattutto quello sguardo che ti buca l’anima senza fondo, come un infernale lago ghiacciato.

Gli sguardi si intrecciano e raccontano ognuno una storia diversa, la propria: accanto, quasi a contraltare della disperazione raggelata di Ted Turner, stanno gli occhioni spalancati alla vita di Audrey. Attenzione, però: questo sguardo è indubbiamente limpido, ma la sua profondità resta comunque insondabile e dice di magherie e di sogni, di trasalimenti e di “scambi magici” – per usare un’espressione cara all’artista – non troppo dissimili quanto ad intensità psichica. E lo stesso si può dire dello sguardo di Zachar, una delle ultime nate nel mondo di Paola, rimasta affascinata anche lei, come tanti, dagli occhi azzurrissimi di questa ragazza afgana fotografata dal “National Geographic” e divenuta simbolo, molti anni fa, della prima guerra in Afghanistan. Il suo sguardo ricorda quello di certe giovani Marie appena toccate dall’annuncio dell’Angelo, un po’ spaurite, desiderose di schermirsi da un onore troppo alto e doloroso: vorrebbe fuggire ma sa che questo è il suo destino e con questo nel cuore e negli occhi saprà crescere, accettando il ruolo quasi insostenibile di una nuova Pandora in cui il presente versa tutti i suoi veleni di crudeltà.