1986 Padova, Galleria Stevens Arte Contemporanea

Claudio Spadoni

 

Faccia quadratafaccia sfumataPer il lavoro teso, inquieto, quasi ossessivo, che Paola De Laurentiis ha accumulato in questi ultimi anni, non sono autorizzati sospetti di sorta. Il timbro per così dire espressionista che caratterizza questa pittura non è in nulla assimilabile ai molti e fin troppo facili riciclaggi in chiave "brutalistica" e "selvaggia". Un avvertimento quasi inutile se solo si conoscano un poco i precedenti della pittrice, e in particolare le opere dei primi anni Sessanta. Barilli aveva parlato, allora, di nuova figurazione; ma, s'intenda bene, nel senso di un passaggio graduale e opportuno dall'indeterminatezza iconografica di eredi-tà informale, ad una progressiva costituzione di agglomerati figurali vagamente antropomorfici. Si sarebbe potuta definire "figurabilità", nell'interpretazione data in quella fase storica al termine, che alludeva ad una ricerca di possibilità di organizzare una materia pittorica ancora fluida, e i segni ancora fluttuanti in uno spazio di misura esistenziale. Con qualche riferimento, magari, a "COBRA", e forse a Dubuffet. E tuttavia già da allora premeva dal profondo una foga, o meglio una strana virulenza della materia, che poco si adattava ai processi di raffreddamento sempre più diffusi e perentori, e in-somma a quella presa di distanza dall'opera dal coinvolgimento esistenziale, appunto che aveva rappresentato la tragica condizione dell'Informale. Anche allora, dunque, per la De Laurentiis, l'impulso alla disgregazione faceva da ostacolo insuperabile alla volontà (per alcuni addirittura al programma) di ristrutturare immagini e spazio secondo principi costruttivi diversamente interpretabili. Un impulso che oggi, dopo varie vicissitudini operative durate un ventennio, sembra riemergere con un vigore (anzi, si diceva, una virulenza) e insieme uno struggimento ben oltre i limiti toccati negli anni Sessanta. Dopo la fase aspra e più gestuale del ciclo del-la "Guerra", e dopo una ripresa di dolcezze decorative quasi inaspettate (come una pausa, un
attimo di respiro) che tuttavia facevano pensare a qualcosa di primitivo e che comunque portavano l'eco d'altre civiltà, d'altre culture lontane nello spazio e nel tempo; dopo queste fasi tutt'altro che trascurabili e a loro volta riconducibili a precedenti operativi della pittrice, i dipinti recenti insistono ossessivamente sulla figura, sia pure intesa ai limiti della sua leggibilità - non dico identità - e della sua "tenuta".

Immagine sdoppiataFigure ambigue: maschere, volti, ritratti perfino (o magari inconspevoli autoritratti?). Figure, comunque, interiori, benché appaiano potentemente fisiche, gravide di una materia che ancora è presa entro una conflittualità insanabile, tra il tentativo di trovare un ordine strutturale minimo e l'impulso vincente a sconvolgere ogni principio costruttivo. Una materia tormentata, percorsa da una tensione implacabile, lacerata da segni che so-no graffi, cancellature, o diversamente, precarie impalcature d'un impianto formale sul punto di franare ancora nella gestualità più forsennata. Tutto è spinto ai limiti dell'allucinazione, fino a quella soglia paurosa dove il tragico ha la maschera del grottesco, dove l'enfasi d'un patetico naufragio nel profondo, in un'interiorità la-cerata s'accende di un balenìo quasi feroce. È come se queste figure, pur allusive a un presente, com'è inevitabile, evocassero immagini d'una sacralità tribale: una condizione entro la quale si consumano, anche se occultati, i più oscuri e atavici drammi della coscienza.