1992 Bologna, Galleria L’Ariete e Istituto di Cultura Germanica

 Teste. Omaggio a Hölderlin

  Marilena Pasquali

 

Grave di rose e rovinaNon è facile scrivere per un'artista che, passo dopo passo, si incammina sul crinale della visione, percorso difficile e teso che non può essere condiviso da tutti e che richiede concentrazione e dedizione assolute, sensibilità scorticata - quasi una ferita aperta che non vuole rimarginarsi - e insieme sforzo di riflessione, capacità di misura e di equilibrio.

Conosco Paola da molti anni e ne apprezzo profondamente il lavoro, tanto da ritenerla una delle voci più autentiche nel panorama artistico di oggi. Ogni volta che varco la soglia del suo studio (e proprio di una soglia si tratta, del punto cioè di contatto e di separazione tra la dimensione del quotidiano e quella dell'interiorità), avverto immediatamente una sensazione di disagio come se mi sentissi stretta d'assedio e attratta controvoglia dall'atmosfera dell'ambiente e dalla carica interrogativa dei suoi abitanti: tele girate contro la parete, forme nascoste sotto teli bianchi, ammassi di materiali disparati raccolti negli angoli; e il tutto in un ordine da montagna incantata. Poi la magia mi prende ed entro in sintonia con un mondo che va svelandosi poco per volta, presenza dopo presenza, sensazione dopo sensazione.

Nel silenzio nulla è tranquillo e il dialogo-contrasto fra l'urgere del tragico e l'azione riequilibrante dell'ironia resta inalterato: da un volto ossessionato può aprirsi a fiore un ramo di corallo rosso lambito dalle correnti; il sonno indisturbato di un «gisant» medievale - Guidarello senza baci che sogna un passato più dolce - è come scosso da un sorriso, quasi un ghigno, di metallo; rotelle impazzite, trucioli della mente, stelle filanti del pensiero esplodono da una testa contratta, troppo chiusa in se stessa per resistere alle pressioni del mondo.

Fino a alcuni anni fa Paola era pittrice e si affidava alla tela per fissarvi i segni della sua indagine nel visibile; da qualche tempo questo non le basta più, ha come bisogno di una forma concreta, scabra, tattile in cui affondare le dita, l'occhio e il pensiero. Non vi è cambiamento di obiettivi, né superamento di stadi espressivi quanto piuttosto un allargamento di confini, il voler cercare più oltre, in una «melodia beffarda... per rompere la linea dell'orizzonte» (sono parole sue, tratte da un appunto di viaggio della tarda estate). Nella scultura resta il colore ed è materia da pittore, stesa a freddo sulla superficie antica, fratta, indisponente della terra cruda di cui asseconda i capricci morfologici, quasi tettonici, e sottolinea le rughe. È un colore allucinato, teso, onirico; è la spia dell'intrusione del quotidiano nel profondo a suggerir che nulla può esistere senza il suo contrario, che non si può dar interiorità senza confronto esplicito con ciò che è al di fuori, né capacità di relazione, rapporto gestaltico fra le parti senza il gettarsi a capofitto nei vortici dello spirito e della mente.

Le forme scolpite seguono dunque quelle dipinte e rivelano come per l'artista il tempo sia uno solo, un continuo presente in cui ogni Immagine, sintesi poetica di sensi e pensiero, sta e convive con le immagini sorelle; è un tempo lungo, scandito dal reiterarsi delle forme che per Paola hanno assunto il carattere della testa, un'identità esplicitamente umana, dichiaratamente nostra e pur quasi aliena nella sua assoluta semplificazione a scheletro, architettura essenziale del vivente.

Ogni artista sceglie la «sua» forma privilegiata di riferimento - Monet l'intensa vitalità percettiva del mondo acquoreo delle ninfee; Morandi la purezza geometrica di vasi e bottiglie; Chagall la nostalgia fiabesca del suoi villaggi gonfi di neve -; Paola ha scelto la testa come archetipo e simulacro dell'umano, perché - come ella stessa confida ai suoi appunti - «il volto è il simbolo dell'essenza delI'Io», e ancora: «abbiamo bisogno degli altri per rivelarci a noi stessi; ho bisogno di parlare agli altri scoprendo agli altri ciò che sanno pensare le mie mani». 

Il tempo lungo dell'artista si avverte anche nello stupore con cui ella stessa guarda i racconti che le affiorano all'immaginazione e le si stendono dinnanzi come fotogrammi in una pellicola cinematografica o come note in un tessuto musicale. Paola ama il cinema e la musica (zone franche della sensibilità in cui il tempo si snoda e si attorciglia secondo proprie regole interne) e li vive come inseparabili compagni di cammino, dimensioni privilegiate in cui le paiono specchiarsi e quasi prender vita i suoi personaggi bloccati in un grido raggelato.  I collages più recenti privilegiano tale dimensione di racconto affascinato, ambientato nella grotta delle meraviglie di Alì Babà e impersonato da protagonisti-pupazzi che dalle teste scolpite hanno mutuato il piacere dei materiali eterogenei, degli accostamenti imprevisti, della casualità come scoperta del non detto. In essi vi è una traccia di onirismo in più, a volte quasi una strizzatina d'occhi al surreale; rispetto alle sculture paiono certamente meno drammatici e incombenti, sono forse meno coinvolgenti ma hanno la grande qualità di rivelar dell'artista il lato più fantasioso e fiducioso, il sapersi anche abbandonare al gusto dell'invenzione e della leggerezza.

Fondamentale resta per lei il nodo luce-ombra, sia come conflitto stordente nel controluce che come trapasso addolcito nella penombra. Le asperità dei piani taglienti e disagevoli comportano più frequentemente il primo caso, ma, se è capacità naturale dell'occhio umano quella di adattarsi senza sforzo reale ai passaggi anche repentini di luce e ombra, aggiustando istintivamente il registro percettivo, è possibile a noi cogliere un addensarsi di espressività nei crepacci profondi, ove l'avventurarsi è pericoloso per l’equilibrio, o arrampicarci sui pendii più illuminati, là dove la vista può spaziare e cogliere i brividi intensi di una vita piena, Gli Idoli, i guerrieri, i cavalieri di Paola sono tutto questo, gioia e dolore strettamente intrecciati, e, come foro, anche Paola è un viluppo inestricabile di vita che conosce l'ombra ma ricerca disperatamente, incessantemente la luce. 

Molto meglio di ogni riflessione critica valgono per accostarsi al suo mondo - affocato e denso, forse faticoso ma mai ostile – i suoi appunti di diario, quell'affollarsi di pensieri che durante la scorsa estate e proprio in previsione dell'impegno odierno Paola ha riversato sulle pagine bianche di un quaderno, per parlare a distanza con me e con tutti coloro che desiderano e sanno ascoltarla. Le sue frasi rispettano la struttura della prosa ma rivelano una profonda sostanza poetica, tanto che immediatamente si scoprono sorelle delle sue opere e ne parlano la lingua, quella dell'immagine. Il

dialogo, questa fatale dannazione della sensibilità umana da Paola accettata e ricercata, si fa strettissimo tra parola e immagine e non si interrompe certo allorché si passa dal catalogo alle sale della mostra, laddove le teste si infittiscono in una falange di eroi e le storie si dipanano fra le luci

dell'oro e le ombre musicali della materia.