1984 Bologna, Galleria Fabjbasaglia
Segni/Sogni di guerra
Claudio Cerritelli
Non si comprende la natura delle attuali ricerche di Paola De Laurentiis, se almeno non si torna, con la memoria e con gli occhi, alle immagini che sono state protagoniste della sua ultima mostra bolognese, tre anni fa, alla Galleria San Luca.
Suggerisco questo antecedente perché penso che una forte differenza linguistica si è stabilita tra il lavoro odierno dell'artista e le forme di quella stagione espressiva, dunque un abisso immaginativo si è aperto a partire dallo spazio contratto di quelle iconografie dipinte in nome della donna, racchiusa nel destino del suo ruolo.
Ogni aspirazione dell'artista oggi sembra cambiata, si tratta di una nuova volontà di resistere ai luoghi comuni sull'arte delle donne e sul segno femminile, e questa volontà di autonomia espressiva è senza dubbio l'impegno più coraggioso che la De Laurentiis sta esercitando nella sua recente storia di immagini.
Tutti i desideri confusi oggi si schiariscono nella mente dell'artista, si alleggeriscono le angosce e le costrizioni immaginative che nella mostra dell'81 (le mostre della De Laurentiis sono rare e al tempo stesso sempre molto intense) erano scandite con tanto rigore, con misura così dura e allucinata.
Le sillabe mute dell'immaginazione che la De Laurentiis temeva di pronunciare oscillavano nello spazio variopinto di visioni ironiche e spietate, tra `bambole' dipinte e gesti sbarrati, come in attesa di continue punizioni e supplizi verbali.
Mi piace insistere sulla presenza di queste bambole preziose-barocche, quasi svuotate d'ogni sostanza interiore, perché mi permette di chiedere come abbia potuto, l'artista, raggiungere d'improvviso la rottura formale e ideologica di questa gabbia dorata, di questi luoghi sacri di autorappresentazione che oggi mi appaiono così lontani, esterni, saturi, perfino retorici.
Dopo aver capito che il modo di avvicinare e vivere l'ideologia femminista stava prevaricando le ragioni d'istinto, radici sottili e sensibilissime, la De Laurentiis ha trovato estro ed energia per uscire allo sbaraglio, per essere artista in modo vertiginoso senza più teorizzare la propria condizione, per sognarla direttamente nella dimensione dell’arte, riscoprendo una pittura tutta per sé.
Una pittura tutta per sé
Da questo presupposto è possibile seguire i movimenti disarticolati che portano alle attuali immagini della De Laurentiis, a quel modo di esprimersi che ha riscoperto le sensazioni stregate del colore, l'uso violento dei neri, un rapporto strettissimo tra i segni trattati nell'ordine e nel disordine della loro costruzione.
La De Laurentiis si muove in uno spazio misterioso, questa caratteristica del resto non potrebbe svanire, è un mistero vissuto senza rimorsi e reticenze, a briglia sciolta, in quel modo fortemente selvaggio che è nel temperamento stesso dell'artista.
Questo significa che il rapporto con il lavoro s'è fatto più intransigente, che la pittura nasce quando deve nascere seguendo una frenesia di gesti che nessun elemento esterno può determinare: quella che banalmente si dice `voglia di dipingere' è una condizione che anticipa tutti i pensieri sull'arte e permette al colore di essere una materia incandescente nelle mani del pittore.
È difficile definire questa esplosione della De Laurentiis con le parole della critica, crea disagio anche usare il termine `esplosione' ma quest'attuale processo di lavoro sta disintegrando ogni presupposto formale al punto che i movimenti della pittura corrispondono ad un corpo privo di controllo, lanciato fuori di sè a divorare lo spazio tutt'intorno, in modo primitivo, senza sotterfugi.
In queste opere recenti (1982-83) si avverte che i pensieri pittorici passano sul foglio a grande velocità lasciando forti tracce nere, anzi vivendo nel dominio del nero, sempre più minaccioso e carico di energie contrastanti.
Per la De Laurentiis l'uso del nero non è mai una forza negativa, è un elemento di luce che non si spegne, una forza che trascina lo spazio lontano da sé, lo scuote in questa o quella direzione come se l'immagine si formasse in quell'istante, vacillando tra diverse possibilità.
La pittura raggiunge momenti di `trance', attimi di abbandono e di delirio che l'artista non vorrebbe mai dichiarare, e che sono una regressione felice ad impulsi e a dilatazioni primarie della forma.
La tentazione della De Laurentiis è quella di rovesciare la drammaticità delle immagini in un rapporto di liberazione dell'immagine stessa, uno scatto di gioia e di erotismo che raggiunge l'occhio là dove si posa, senza altre mediazioni che quelle suggerite dal colore, dai segni, dai loro ritmi incrociati.
In questa guerra di segni le memorie sono diverse, gli artisti amati dalla De Laurentiis portano i nomi di Tapies, Pollock, Kine, forse anche di Vedova, riferimenti che vengono trasfigurati in sogni di guerra, quelli che sorptrendono il pensiero della pittura e trasformano le sue debolezze immaginative in nuove e incontenibili azioni.
Segni-sogni di guerra
Un intenso gruppo di grandi fogli è interamente affidato ai gesti di guerra del colore, i titoli delle opere del resto sono inequivocabili e richiamano direttamente i personaggi e le situazioni in cui l’energia della De Laurentiis preferisce concedersi. “Ritratto di Guerriero” (1983) oppure “Cavallo di guerra” (1984) sono innanzitutto figure del desiderio, proiezioni di una cultura primitiva in cui l'artista cerca di liberare il suo immaginario.
Questi titoli fanno scattare anche una precisa catena di identificazioni in cui cadono tutte le azioni pittoriche, anche le più convulse, quasi un ordine simbolico che guida la fatalità di queste immagini.
L'idea della «guerra» è per la De Laurentiis un'idea di solitudine, di isolamento, è una conseguenza forzata della dissoluzione dei rapporti che oggi l'artista subisce nei confronti del «resto».
Quando questa tensione si esaspera la pittura diventa lo strumento immediatamente coinvolto nella distruzione interiore dell'immagine, il linguaggio non può più appagarsi nella rappresentazione di questo dramma interno e ogni inquietudine finisce per entrare in conflitto con un'altra inquietudine. Così nascono i segni di guerra della De Laurentiis, segni che mettono in guardia lo sguardo e promettono continue trasgressioni nei gesti delle figure che si strappano tra macchie rosse e cieli minacciosi. Nella metafora della guerra l'artista sogna un proprio mito di autenticità, la scena illusoria in cui al codice della realtà si contrappone la libertà del momento creativo: la pittura inventa momenti di guerra proprio perché la vita si è arresa all'arte con tutti i propri sogni.
«Una nostalgia della vita e una lacerazione dei sogni - dice l'artista - sogni ancora intatti, incantati, in una infanzia che non vuol morire, ciò si falcia, si rode, si spezza con una ferocia che è come una lama. Forse siamo allora solo pagliacci neri che ridono, ridono dentro un incubo di segni?».
Nostalgia, infanzia, incubo, questa è dunque la catena di segni che la De Laurentiis porta in conflitto, segni che rassomigliano ad una ruota impazzita di colori.
L'artista dipinge sogni che non si tranquillizzano nei segni, anzi intensificano le loro contrazioni, giocano sul presente un'innocenza che ha radici lontane, addirittura nei primi anni sessanta, quando affioravano nelle prime metamorfosi post-informali. Allora erano figure con artigli che Barilli leggeva come «una arguta commedia di maschere, di pupi, di nanerottoli velenosi» (cat. Galleria De Foscherari, marzo 1964), oggi si tratta forse di quegli stessi “pupazzi” che hanno conosciuto i segreti della “casa di bambole” e tornano a provocare lo spazio dell’immaginazione, nuovi guerrieri che avanzano con le armi del colore.